Bartleby, lo scrivano (una storia di Wall Street)

Commento di Paolo Santori ad un racconto di Herman Melville

…E la felicità d’aver coraggio E il gaudio, infine, di scorgere Itaca.

Herman Melville, poesia di Jorge Luis Borges

Non si può ricondurre tutto ad un fine o ad una fine. Ci sono personaggi e racconti che sfuggono le reti in cui proviamo ad intrappolarli. Noi tentiamo di chiuderli in un cerchio, ma loro ci chiedono di disegnarli come linee di cui non conosciamo la fine e forse neanche l’inizio. È la stessa richiesta che fanno ai loro creatori. Chi scrive davvero sa che la regola è il cerchio, ma la parte più importante e autentica del racconto vive nella linea.

Se c’è qualcosa di vero in tutto questo, di sicuro vale per Herman Melville e i personaggi delle sue storie.

Non si può ricondurre tutto ad un fine o ad una fine. Ci sono personaggi e racconti che sfuggono le reti in cui proviamo ad intrappolarli. Noi tentiamo di chiuderli in un cerchio, ma loro ci chiedono di disegnarli come linee di cui non conosciamo la fine e forse neanche l’inizio. È la stessa richiesta che fanno ai loro creatori. Chi scrive davvero sa che la regola è il cerchio, ma la parte più importante e autentica del racconto vive nella linea.

Se c’è qualcosa di vero in tutto questo, di sicuro vale per Herman Melville e i personaggi delle sue storie. Penso a Moby Dick e al capitano Achab (Ahab nella versione originale). Quante letture ex post hanno voluto ricondurre Achab a un dannato senza grazia (cristiana) o a un folle privo di valori morali. Quante hanno visto nella sua morte, esito dello scontro con la balena bianca, il fallimento di un determinato stile di vita. “Achab si guardi da Achab” diceva profeticamente Melville. Aveva ragione. Melville rispettava il personaggio che aveva creato, ascoltava la voce che chiamava Achab (e forse anche lui) senza esprimere giudizi più o meno moralistici. Non tutte le voci e le chiamate sono buone, ma quelle profonde sono tutte vere e come tali ci chiedono di rispettarle. Chi vuole entrare nella profondità di Achab deve arruolarsi con lui nella sua ciurma dannata, andare alla ricerca di Moby Dick e combatterlo fino alla fine. L’esito è incerto, anche per chi ha già letto il libro.

Lo stesso discorso vale per un altro personaggio di Melville, Bartelby lo scrivano. Alcuni hanno definito il racconto breve di Bartelby il primo romanzo esistenzialista della storia. Recentemente, due importanti filosofi come Giorgio Agamben e Gilles Deleuze hanno dedicato un bel saggio – Bartelby, la formula della creazione – al contenuto filosofico del testo. Ciò che ho in mente io è simile nello spirito, ma diverso nel contenuto. Vorrei dapprima raccontare la storia di Bartelby lo scrivano, e poi evidenziare un punto che mi ha colpito. Ciò che ho detto fin qui valga allora come monito a me stesso, di non cercare di chiudere niente, di non ‘cerchiare’ Bartelby, ma piuttosto di trovarlo in un punto sulla linea tracciata da Melville.

Nei racconti veri non vale la logica dello spoiler. Riportando i fatti narrati da Melville posso rivelarvi poco rispetto a ciò che emerge dalla lettura del testo, tantomeno conta che io vi sveli il finale. Come con l’Ismaele di Moby Dick, Melville affida ad uno dei personaggi l’onere della narrazione. Questa volta è un avvocato senza nome a raccontare gli eventi. Mi piace pensare che non rivelandoci il nome del narratore Melville abbia voluto conferire ad ognuno di noi l’onore del racconto. Fedele a questo pensiero riassumerò i fatti come seguono.

Immaginate di essere un avvocato di discreto successo con uno studio notarile a Wall Street. La vostra massima di vita si riassume nel detto ‘è bene ciò che è facile’. Avete tre impiegati. Di ognuno conoscete le caratteristiche, pregi e difetti, e siete ragionevolmente in grado di predirne azioni e opinioni. Con l’aumento del lavoro decidete di assumere un quarto aiutante e al colloquio si presenta una persona “pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida!”: è Bartelby. Decidete di assumerlo e non ve ne pentite. Bartelby lavora indefesso dalla mattina alla sera, trascrivendo e copiando documenti, silenzioso e pallido nella scrivania che gli avete assegnato. Ad un tratto accade l’impensabile.

A quell’uomo di cui vi fidate sempre di più, di cui apprezzate la serietà nel lavoro e la mitezza, chiedete di svolgere un compito differente dalla copiatura di documenti. Gli chiedete di leggere insieme un documento da lui redatto. A sorprendervi è la risposta: “preferirei di no”. Nello sdegno dei vostri sottoposti, nella vostra incapacità di ricondurre a una qualsiasi ragione quel rifiuto, i ‘preferirei di no’ aumentano al pari delle mansioni ‘ordinarie’ che domandate a Bartelby, mentre a non aumentare sono le risposte alle richieste di spiegazioni. Lo scrivano continua semplicemente a trascrivere e copiare, con il solito impegno ma anche con il solito sguardo perso nel vuoto.

Non licenziate Bartelby perché non lo ritenete in cattiva fede. Nel frattempo, avete scoperto che dorme nel vostro studio, mangia a malapena, e non parla mai se non interloquito. Provate ad aiutarlo razionalmente, fallite; allora avete misericordia di lui, e per tutta risposta il ‘preferirei di no’ si trasforma in un rifiuto totale del lavoro. Bartelby non lavora più. Delle motivazioni neanche l’ombra: “Non capisce da sé la ragione?” l’unica risposta che ottenete con aria indifferente. Dolorosamente decidete di licenziare Bartelby ma lui, con la mitezza che lo contraddistingue, decide di non lasciare il vostro studio. Cambiate studio, in fondo è la soluzione più facile. Bartelby non vi segue, e rimane nel condominio di Wall Street dove i nuovi proprietari minacciano di farlo rinchiudere. Contro il piano che vi aveva portato a trasferirvi chiedete a Bartelby di venire da voi in attesa di una soluzione, ma la riposta è sempre una preferenza negativa. Alla fine, Bartelby viene rinchiuso in un centro di detenzione per vagabondi, dove morirà rifiutando i pasti da voi generosamente pagati tramite la corruzione di una guardia e di un cuoco.

Non tutte le voci e le chiamate sono buone, ma quelle profonde sono tutte vere e come tali ci chiedono di rispettarle

La storia finisce con una notizia che voi stesso avete sentito su Bartebly. Badate bene, tutto il racconto lo avete vissuto in prima persona, siete stati testimoni, mentre la notizia viene da fonti non specificate. Pare che Bartelby, prima venire nel vostro studio, fosse impiegato nell’ufficio delle lettere smarrite, cioè quelle lettere che non arrivano alla persona a cui erano destinate. Ora è Melville a parlare tramite voi: “Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello – il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità… e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte. O Bartleby! O umanità!”. Così si conclude la storia di Bartelby, la storia di Melville, la vostra storia.

Perché Melville ha scelto per noi questo finale? Forse che il racconto non sarebbe potuto terminare con la morte di Bartelby? O forse la diceria vale meno della testimonianza diretta, vale meno del vostro rapporto con Bartelby? E ancora: il ‘preferirei di no’ è un simbolo della volontà pura che si contrappone alla ragione e alle ragioni di noi lettori/narratori? Perché Bartelby ‘preferisce’ non fare piuttosto che rifiutare categoricamente? Come spesso accade quando si analizzano i grandi testi le domande sono più interessanti delle risposte e, fedele alla linea da cui siamo partiti, intendo lasciare aperte quelle che ho riportato pocanzi. Una domanda però mi ha colpito particolarmente e vorrei osservarla più in profondità: perché Bartelby copia e trascrive – lavora percependo un salario – per poi, ad un certo punto, smettere? In altre parole, che ruolo aveva il lavoro nella vita di Bartelby?

Colpisce che un racconto definito come il ‘capostipite’ dell’esistenzialismo sia ambientato a Wall Street e parli di lavoro. Il lavoro è così al centro di questo racconto che anche nella diceria esso si fa veicolo di un significato molto profondo, la gestione e distruzione di lettere che non raggiungono il destinatario è infatti connessa ad una delle miserie più profonde dell’umanità. Forse che la duplicazione di documenti è il tentativo di Bartelby di fare sì che delle cose ‘scritte’ non vengano perdute, una risposta alla distruzione caratterizzante il precedente lavoro? Magari siamo davanti ad un disperato tentativo di salvarsi dal lavoro-distruzione tramite un lavoro-redenzione. In quest’ottica il rifiuto dell’attività di scrivano potrebbe essere il segno che il salvataggio è fallito, o che addirittura non c’era nessun salvataggio in atto (ricordate lo sguardo perso nel vuoto che vedevate in Bartelby quando lavorava?).

Le risposta che mi sono dato muove da queste ipotesi, ed è il mio punto sulla linea di Bartelby. Lo scrivano aveva una vocazione per il lavoro che faceva, era ‘chiamato’ dalle lettere che nel primo lavoro leggeva e nel secondo copiava. La chiamata era così forte che anche nella disperazione totale le lettere continuano a chiamarlo, quelle lettere che gli avevano distrutto la vita o gli avevano fatto percepire la distruzione della vita, e lui, mite, continuò a rispondere. Ricordiamoci che Bartelby venne licenziato dal primo lavoro, non si licenziò. Quando poi venne mandato via, quando la vita andò per un momento oltre la strada tracciata dalla sua vocazione, Bartelby tentò di convertire quella chiamata stabilendo un nuovo rapporto con le lettere. Forse la copiatura e trascrizione nella sua mente potrebbero aver rappresentato l’esatto contrario del suo precedente lavoro. Noi avevamo provato ad aiutare Bartelby tramite ragione e misericordia, ma forse l’aiuto più grande era il lavoro retribuito che gli avevamo dato nel nostro ufficio. E allora che ne facciamo del ‘preferirei di no’ e del suo successivo rifiuto del lavoro?

Commentando la storia di Bartelby, il filosofo Slavoj Zizek si è soffermato sul ‘preferirei di no’, in inglese I would prefer not to. Zizek nota come davanti alla coppia ‘voler fare’ e ‘non voler fare’, il ‘preferirei di no’ Bartelby e Melville apra una terza via: il ‘volere il non fare’. Bartelby non stava rifiutando le mansioni aggiuntive propostegli, come ricontrollare gli scritti o spedire una raccomandata. Non stava neanche rifiutando la mano che tutti noi gli avevamo teso più volte come offerta di aiuto. Bartelby stava piuttosto affermando un altro tipo di realtà e di vita, la sua. Un universo di senso e significati quasi inaccessibile a chi non aveva ricevuto la stessa vocazione e che noi possiamo soltanto intravedere nel suo ‘preferirei di no’. In questa realtà, nella sua realtà, anche il grande calore umano che gli abbiamo dimostrato viene accolto con ‘indifferenza’ (parola di Melville), proprio perché non-differente dalle mansioni ordinarie. Era soltanto il lavoro, nel quale si concretizzava il suo rapporto con le lettere, che aveva senso portare a termine. Noi provavamo di tutto, “Barteby, nel frattempo, se ne stava nel suo eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé”.

Mi piace pensare che come nelle lettere smarrite fece esperienza di una tragica finitezza, così nel copiare e trascrivere Bartelby fece esperienza dell’infinità, profondamente laica, della vita. Le pagine più belle di Melville non sono quelle finali, la morte di Bartelby o la diceria sulle lettere smarrite. Quanta vita e significato si trovano invece nelle prime pagine, nelle semplici descrizioni del lavoro di Bartelby lo scrivano. Questo Melville lo sapeva bene, tanto che già nel titolo decise di rivelare tutto ciò che c’era da sapere: uno scrivano, una storia di Wall Street. Forse quando iniziò a scrivere il racconto Melville pensò a titoli come ‘Preferirei di No’ o ‘Le Lettere Smarrite’ ma poi, come accade spesso, l’autore cambiò idea. Forse sarà stato lo stesso scrivano, leggendo i titoli alternativi, a dire sommessamente a Melville un ‘preferirei di no’.

Questo è il mio cerchio nella linea di Bartelby e Melville. Ad un certo punto però, come tutte le vocazioni e chiamate, le lettere tacciono, la voce del suo lavoro scompare, o forse quella del lavoro precedente diventa troppo forte. E così Bartelby non lavora più, smette di scrivere e trascrivere. Preferiva di no, ed io con lui. O Bartelby! o Umanità!

PAOLO SANTORI

Teacher of Philosophy and Economics,

Tilburg University

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